Viaggio a Ndiagamba
Arrivare a Ndiagamba ? una piccola avventura. Parto da Fatick, una citt? vicina in linea d’aria a Gossas, verso le 11.00 di una mattina rovente. Per viaggiare prendo un camioncino Mercedes che in un lontano passato (circa cinquemila anni fa credo) ha conosciuto momenti migliori. Dentro, stipati all’inverosimile, siamo in 36. Prendiamo la strada verso Mbour, una delle localit? turistiche pi? famose in Senegal. La strada ? la stessa che percorrevano i francesi all’epoca del Senegalgambia. Sottolineo la stessa perch? da allora non ? stato fatto alcun lavoro di manutenzione e praticamente il manto di cemento si ? trasformato in un’impraticabile tratto lunare.
Il camioncino affronta il tragitto percorrendo solo i sentieri ai margini della strada per circa 40 km. L’impressione ? di stare su un cigolante ottovolante impazzito. Dopo circa un paio d’ore arriviamo in un incrocio. Scendo e incontro Eduard, un senegalese alto un metro e novantacinque per circa 50 kg. di peso che mi sta aspettando per condurmi a Ndiagamba. Contrattiamo l’affitto di un carretto e dopo dieci minuti di tira e molla saltiamo sopra un pianale di legno munito di due copertoni di automobile trascinato da un cavallo magro quanto Eduard per la modica cifra di 30 centesimi di euro. Lentamente percorriamo una strada asfaltata pi? recentemente della precedente fino a quando il carretto non va in panne, nel senso che una gomma si buca rendendolo inutilizzabile.
Sono circa le 14.00, il sole ha superato lo zenit da un paio d’ore, ma sfrigola nel cielo ancora baldanzoso. Il nostro Caronte ci restituisce i soldi e desolato ci indica un villaggio a circa cinque kilometri dove, se siamo fortunati, possiamo trovare un altro carretto. Marciamo con molta calma verso gli alberi che ci ha indicato. L? siamo fortunati. Un ragazzo impietosito dalla mia faccia stravolta corre verso la sua casa e dopo cinque minuti ricompare con un altro carretto. Con quello percorriamo i restanti 5 kilometri per arrivare a Ndoss, un villaggio dove ci sta aspettando un amico di Eduard a bordo di un altro carretto. Con quello ci inoltriamo per dieci kilometri nella coloratissima campagna, seguendo un sentiero che attraversa i campi di mais, di arachidi e di miglio. Dopo circa mezzora arriviamo a Ndiagamba. Qui abitano circa 2000 persone di etnia serer, tutte rigorosamente cattoliche. Fra le abitazioni spiccano due chiesette striminzite, le uniche costruzioni provviste di tetto di lamiera. A Ndiagamba tutte le altre costruzioni sono di legno con il tetto di paglia, le classiche capanne viste con incredulit? nei documentari sull’africa. Non c’? corrente elettrica, non ci sono acquedotti. Ci sono alcuni pozzi dove a dieci metri di profondit? si trova un acqua insolitamente zuccherosa e un fiume dall’acqua torbida che scorre pigramente a circa trecento metri dalla fine del villaggio. Eduard mi presenta nel giro di trenta minuti met? degli abitanti del villaggio sopraggiunti incuriositi alla notizia dell’arrivo di un bianco.
I bambini piccoli piangono disperati aggrappati alle schiene delle loro madri quando mi avvicino. O sono particolarmente brutto e spaventevole oppure ? vero quanto si dice in Senegal che per far smettere i bambini di fare i capricci i genitori li minacciano con: “guarda che se non la smetti viene l’uomo bianco”. Resto con il dubbio in testa mentre Eduard mi fa visitare la sua stanza, una capanna pulitissima e inaspettatamente fresca all’interno. Mangiamo il pesce pescato nel fiume e subito dopo andiamo a conoscere il capo del villaggio, un signore di quarant?anni molto in gamba che si chiama Bernard. Parliamo molto della vita nel villaggio. Mi racconta che la necessit? pi? urgente ? costruire un piccolo dispensario medico da attrezzare come piccolo pronto soccorso. La cosa che si avvicina di pi? a questa descrizione dista dal villaggio circa 15 km. e se una persona ferita viene trasportata con il carretto fin l? rischia il pi? delle volte di arrivare a destinazione in condizioni pi? gravi di quando ? partita. Poi insieme ci rechiamo nei pressi di un’altra capanna dove intanto si sono riuniti una cinquantina di uomini e donne. Con l’aiuto di Eduard che cura con estrema pazienza la traduzione dal mio francese tentennante nella locale lingua serer, cerchiamo di organizzare tutti insieme con molta partecipazione un piano per la costruzione del dispensario. Alla fine della riunione, mentre il sole inizia la sua frettolosa discesa verso l’orizzonte, ci salutiamo tutti stringendoci la mano. In vita mia non mi era mai capitato di toccare delle mani con dei calli cosi duri e nodosi.
Mi sembra che quelle mani contengano una fatica quotidiana inimmaginabile. Ma la cosa che mi stupisce di pi? sono i loro visi.. distesi, pronti al sorriso ma solenni. Ripercorriamo con molta pi? fortuna la strada dell’andata mentre la notte avanza con un incredibile manto di stelle. Eduard mi continua a descrivere con rapimento tutti i particolari del paesaggio che incontriamo nel tragitto, i campi, gli alberi.. dandomi mille spiegazioni e aneddoti. Addirittura si illumina quando mi racconta il combattimento delle vacche e me ne parla con lo stesso trasporto di un commentatore televisivo durante una partita di coppa campioni. Arriviamo al bivio dove ci attende un altro pulmino che strada permettendo ci riporter? a Dakar cinque ore pi? tardi. Ma prima di salire Eduard alza gli occhi al cielo e dalle labbra gli scappa: “Vedi quelle stelle? Quelli sono gli occhi di dio”. Io, da ateo, dovrei rispondergli scetticamente. Ma sar? la sensazione ruvida e nodosa che hanno impresso sulla mia mano le mani di quei contadini. O saranno i loro visi solenni. Non so spiegarlo. Ad Eduard dico solo “Speriamo che almeno una stella guardi ogni tanto Ndiagamba”. E lui sorridendo mi risponde “Speriamo”.
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